Credito della società di leasing: necessario tenere conto del valore dei beni ricollocati
Doveroso perciò operare una compensazione tra il credito vantato e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene
                                        
                        A fronte di un contratto di leasing risolto per inadempimento dell’utilizzatore, il concedente non può pretendere l’ammissione al passivo fallimentare per l’intero importo del credito residuo senza tenere conto del valore dei beni restituiti e successivamente ricollocati, dovendo operarsi, perciò, una compensazione tra il credito vantato e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene, indipendentemente dalla qualificazione del leasing come traslativo o di godimento.
Questo i chiarimenti forniti dai giudici (ordinanza numero 25701 del 19 settembre 2025 della Cassazione) a chiusura del contenzioso relativo all’istanza con cui una società di leasing ha chiesto l’ammissione al passivo del fallimento di una ‘s.r.l.’ in liquidazione, per un credito pari a quasi 60mila euro e derivante da due contratti di leasing aventi ciascuno ad oggetto l’utilizzazione di un veicolo industriale.
Rilevanti i dettagli, poiché l’insinuazione al passivo ha ad oggetto un credito esattamente pari all’intero importo ancora dovuto al momento della risoluzione dei due contratti, così come indicato dalla società concedente, però ancor prima che fossero restituiti i beni che essa afferma di avere poi ricevuto e di avere rivenduto a terzi.
Dalla ricollocazione dei beni, poi, la società di leasing ha ricavato un importo complessivo pari a 108mila euro, a fronte di un corrispettivo originario complessivo di 292mila euro.
Ciò detto, in nessuna disposizione di legge si attribuisce alla concedente in leasing il diritto di pretendere tutto il residuo corrispettivo dovuto in forza del contratto e di trattenere tuttavia l’intero valore, tutt’altro che irrisorio nel caso specifico, dei beni restituiti in seguito alla incompleta esecuzione del piano dei pagamenti, annotano i giudici.
Inoltre, la legge fallimentare – laddove disciplina lo scioglimento del contratto di leasing considerato quale rapporto giuridico pendente al momento del fallimento – pone a carico del concedente che riceve in restituzione il bene l’obbligo di versare alla curatela l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale, e, qualora il credito residuo sia superiore al valore del bene restituito, il concedente ha diritto di essere ammesso al passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene.
Da non dimenticare, poi, l’esistenza di un meccanismo di compensazione tra credito residuo del concedente e valore dei beni restituiti, meccanismo secondo cui il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita.
Vero che tale disciplina legale supera, osservano i giudici, la tradizionale distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento, ma lo fa nel senso che rende superflua tale classificazione, perché ciò che conta è, in ogni caso, il valore residuo netto dei beni di cui il concedente mantiene la proprietà e recupera la disponibilità. Valore che, nel caso specifico, è significativo (superiore rispetto al debito residuo dell’utilizzatrice) e non viene in alcun modo messo discussione, essendo tra l’altro indicato sulla base della dichiarazioni rese dalla società di leasing in merito ai prezzi incassati dalla ricollocazione.