È un rapporto di consumo lo sfruttamento a fini commerciali

Logico inquadrare la patrimonializzazione del dato personale come un rapporto trilatero: il consumatore accede ai servizi internet consentendo, inconsapevolmente anche se non obbligatoriamente (vale a dire in assenza di una corretta e adeguata informazione), l’utilizzo dei propri dati ad un operatore digitale, il quale cede i dati a terzi previo corrispettivo per le inserzioni pubblicitarie

È un rapporto di consumo lo sfruttamento a fini commerciali

Lo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali inerisce ad un rapporto di consumo in presenza del fenomeno della patrimonializzazione del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, in quanto il consenso all’utilizzo dei dati si configura come una controprestazione del servizio offerto dal professionista, il quale raccoglie i dati personali degli utenti e li usa a fini di profilazione per terzi con vendita di spazi pubblicitari e, quindi, con attività di intermediazione pubblicitaria. Questa la moderna visione tracciata dai giudici (sentenza numero 80 del 7 gennaio 2025 del Consiglio di Stato), chiamati a prendere in esame le obiezioni sollevate da ‘Google’ a fronte della multa salta – per 5milioni di euro – inflittale dall’Antitrust. Necessario un passo indietro per meglio inquadrare la vicenda. Tre anni fa, l’Antitrust ha censurato ‘Google’ per due pratiche commerciali scorrette e l’ha poi sanzionata con due multe da 5milioni di euro l’una. Il procedimento ha riguardato, in sostanza, due distinte pratiche poste in essere da ‘Google’ e aventi ad oggetto la raccolta e l’utilizzo, a fini commerciali, dei dati dei propri utenti-consumatori, sia nella fase di creazione dell’ID ‘Google’, sia nella fase di accesso ad altri servizi offerti dalla società, i quali, a loro volta, comportano raccolta di dati. In particolare, l’Antitrust ha così distinto le due pratiche: in primo luogo, nella fase di creazione dell’account di ‘Google’, indispensabile per l’utilizzo di tutti i servizi offerti dalla società, e in fase di utilizzo di vari servizi offerti da ‘Google’, la società ha adottato un’informativa priva di immediatezza, chiarezza e completezza, in riferimento alla propria attività di acquisizione di dati personali e di ricerca dell’utente per un loro utilizzo a fini commerciali; in secondo luogo, la società, laddove il consumatore proceda alla creazione di un account ‘Google’, applica una procedura basata su una modalità di acquisizione del consenso all’uso dei dati degli utenti a fini commerciali in ‘opt-out’, ossia senza prevedere per il consumatore la facoltà di scelta preventiva ed espressa in merito alla cessione dei propri dati. L’opzione a disposizione dell’utente di autorizzare o meno tale modalità risulta, infatti, pre-impostata sulla possibilità di acquisizione dei dati per la società nella fase di creazione dell’ID ‘Google’, passaggio, questo, obbligato per il consumatore che intenda utilizzare la maggior parte dei servizi di ‘Google’. Ebbene, per i giudici è logico inquadrare la patrimonializzazione del dato personale come un rapporto trilatero: il consumatore accede ai servizi internet consentendo, inconsapevolmente anche se non obbligatoriamente (vale a dire in assenza di una corretta e adeguata informazione), l’utilizzo dei propri dati ad un operatore digitale, il quale cede i dati a terzi previo corrispettivo per le inserzioni pubblicitarie. Entrando ancora più nei dettagli, l’Antitrust ha contestato a ‘Google’ di non avere informato adeguatamente i consumatori circa la possibilità che i loro dati potessero essere utilizzati per mostrare loro annunci personalizzati. Così, la patrimonializzazione del dato personale, frutto dell’intervento della società attraverso la messa a disposizione dei dati e la profilazione dell’utente a fini commerciali, era avvenuta senza la dovuta consapevolezza da parte dei consumatori. Logico, quindi, secondo l’Antitrust, sanzionare la condotta con cui l’azienda non ha fornito in modo chiaro informazioni rilevanti, alterando in tal modo la capacità del consumatore di assumere una decisione consapevole. In questa ottica, poi, il metodo ‘opt-out’ (ossia senza prevedere per il consumatore la facoltà di scelta preventiva ed espressa in merito alla cessione dei propri dati, in quanto passaggio obbligato per utilizzare la maggior parte dei servizi digitali) può concorrere alla formazione di una pratica commerciale ingannevole, ma non integra una pratica aggressiva sotto forma di indebito condizionamento, alla luce del ‘Codice del consumo’, in quanto il consumatore, sia pure attraverso un atto di deselezione dell’opzione predeterminata e di apposizione del flag su un diverso spazio, può, anche se in modo più difficoltoso, evitare di compiere la scelta proposta. E la carenza informativa sugli effetti della preselezione rileva sotto il profilo della ingannevolezza e, quindi, sulla consapevolezza, ma non in termini di aggressività, vale a dire sulla libertà di scelta, della pratica commerciale.

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